Rivoluzione digitale, opportunità da cogliere: e ormai siamo tutti d’accordo. Osservando il lento muoversi delle cose che, di settimana in settimana si disegna grazie al racconto dei giornali, possiamo scorgere alcuni processi “di spinta all’innovazione” -che possono fare la differenza sul cambio di passo dell’intero sistema socio-economico- insieme ad alcuni forti limiti che appartengono e condizionano lo sviluppo di questo sistema.
Le due “spinte” individuate in settimana sono: quella data dalla finanza europea attraverso la BEI che negli ultimi 10 anni (2008 – 2018), ha erogato finanziamenti in Italia per 108 miliardi, sostenendo investimenti del valore superiore a 300 miliardi, di cui hanno beneficiato 289mila Pmi per 6,7 milioni di posti di lavoro creati o mantenuti. Inoltre, grazie al piano Juncker, a fine 2018 in Italia sono state approvate operazioni per 9,6 miliardi e 55,7 miliardi di investimenti sostenuti. Altra spinta è quella che potrà imprimere la strategia del Governo sull’innovazione tecnologica che, se ben coordinato con i diversi settori produttivi, potrebbe diventare utilissima per intere filiere. Il nuovo presidente dell’Ice parla, per esempio, del possibile uso massiccio della blockchain per tracciare i prodotti del Made in Italy (dal fashion all’agroalimentare), per tutelare i brand, indicare l’origine di DOCG, DOC, DOP, IGP, contrastare la contraffazione e quindi per ridurre il pazzesco fenomeno dell’”italian sounding”.
Contestualmente, sullo sfondo, appaiono i vizi del nostro Paese che limitano fortemente le scelte e la definizione di uno sviluppo strategico consapevole. Tre tra tutti (almeno questa settimana): le imprese non fanno formazione, soprattutto per ampliare le competenze 4.0; il sistema della ricerca, qualitativo e internazionalmente riconosciuto, resta troppo distante dalle applicazioni concrete nell’industria e, in generale, nel contesto produttivo; oggi (4 febbraio 2019) si avvia ufficialmente il percorso del reddito di cittadinanza che ha di fronte questo grande cane che si morde la coda: sono disponibili circa 350mila posti di lavoro (secondo Unioncamere) ma chi chiede il sussidio non è qualificato e, dall’altra parte, chi ha qualità rifiuta offerte di lavoro da 1200 euro (considerando, per altro, che i salari bassi non spingono la crescita).
È con questi grossi limiti che ci affacciamo a quello che pare essere il futuro della globalizzazione fatto, secondo McKinsy, di filiere che si accorciano: tutti i Paesi emergenti stanno raggiungendo un livello di sviluppo tale da portarli a ridurre la dipendenza dalle importazioni, costruendo catene del valore sempre più “locali”. E sono soprattutto i servizi – e al loro interno l’economia della conoscenza – e la tecnologia (da Industria 4.0 alla robotica alla stampa 3D) ad “accorciare” le filiere. «Alcune piattaforme digitali di e-commerce e nuove tecnologie in ambito logistico – ha concluso Susan Lund – continueranno a facilitare il commercio globale. Ma altre – come la stampa 3D, ad esempio – consentono alle aziende e ai consumatori di produrre i beni nello stesso luogo dove vengono utilizzati. La robotica avanzata e l’intelligenza artificiale riducono l’importanza del costo del lavoro nella produzione. Potrebbero determinare una maggiore produzione locale più vicina ai mercati chiave e una minore dipendenza da fornitori esteri che offrono manodopera a basso costo».
Ma veramente non riusciamo ad accordare insieme tutti gli strumenti per produrre un nuovo italian sound che tutto il mondo possa riconoscere come originale invece che “sembrarlo solo”?
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